Fumatrice incallita uccisa da un carcinoma polmonare: sotto accusa l’azienda produttrice di sigarette
Precisazioni importanti, da parte dei giudici, in merito alla nocività delle ‘bionde’ e alla consapevolezza dei fumatori sulle possibili gravi ripercussioni fisiche provocate dal fumo

Fumatrice da metà anni ‘60, uccisa da un carcinoma polmonare: responsabilità addebitabile all’azienda produttrice di sigarette. Questa la prospettiva tracciata dai giudici (ordinanza numero 13844 del 23 maggio 2025 della Cassazione), i quali, al di là della specifica vicenda, hanno compiuto importanti considerazioni in merito alla nocività delle ‘bionde’ e alla consapevolezza dei fumatori sulle possibili gravi ripercussioni fisiche provocate dal fumo.
Riflettori puntati, tornando allo specifico caso, sulla morte di una donna e, soprattutto, sulla connessione tra la patologia a lei fatale – un carcinoma polmonare – e il quotidiano consumo di sigarette – venti ogni giorno, per la precisione –, da parte sua, per ben trent’anni.
Per i familiari della donna il nesso tra malattia e tabagismo è evidente e quindi è logico dedurre la responsabilità della società ‘British American Tobacco Italia S.p.A.’, colpevole, a loro avviso, di non avere mai informato i consumatori dell’alta nocività delle sigarette ‘MS’, nonostante sin dal 1950 la letteratura scientifica avesse messo in relazione il carcinoma polmonare con il fumo
attivo. Consequenziale, quindi, la richiesta di risarcimento, da parte del marito e dei figli della donna, per il danno morale subito.
Per la ‘British American Tobacco Italia S.p.A.’, invece, è palese l’assenza di illecito e, quindi, di responsabilità, essendo sia la produzione che la vendita di tabacco attività lecite ed esercitate nel rispetto della normativa vigente.
In primo grado i giudici danno ragione ai familiari della donna, qualificando la produzione e la vendita di tabacco quali attività pericolose, con conseguente onere in capo alla società di provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, a prescindere dalla sussistenza di un obbligo giuridico di informare sulla nocività del fumo, e ritenendo lampante il nesso di causalità tra produzione e vendita di sigarette senza informazioni sui rischi per la salute dei consumatori e lo specifico evento dannoso cui fumatori sono risultati esposti, essendo il carcinoma polmonare una conseguenza normale ed ordinaria del fumo. Però i giudici sottolineano il concorso di colpa – nella misura del 50 per cento – della fumatrice deceduta, stante l’utilizzazione protratta nel tempo, da parte sua, delle sigarette, non essendo i danni da fumo del tutto ignoti e purtuttavia essendovi una diffusa consapevolezza solo generica degli effetti nocivi del fumo, ed essendo stata, nella specie, la consapevolezza specifica acquisita da parte della donna quando ormai la sua salute era irrimediabilmente compromessa.
A sorpresa, però, in Appello, arriva una pronuncia ‘assolutoria’ per la ‘British American Tobacco Italia S.p.A.’. Niente risarcimento, quindi, per i familiari della donna. Decisivo il riferimento, fatto dai giudici, alla libera scelta della donna di fumare, nonostante la consapevolezza dei danni che avrebbero potuto derivargliene. Esclusa, quindi, sempre secondo i giudici d’Appello, la configurabilità del nesso di causalità tra la condotta della ‘British American Tobacco Italia S.p.A.’ e il danno derivato alla donna dalla pratica del fumo.
A modificare nuovamente gli equilibri provvedono i magistrati di Cassazione, accogliendo le obiezioni sollevate dai familiari della donna e ritenendo addebitabile una responsabilità alla società.
In premessa, viene chiarito che l’attività di produzione e commercializzazione di derivati del tabacco è certamente, dal punto di vista naturalistico, causa del danno, ma può non esserlo laddove la condotta oggettivamente colposa della vittima assuma il ruolo di causa sopravvenuta, dotata di efficienza causale esclusiva, neutralizzante l’apporto eziologico dell’attività dell’esercente, degradato al ruolo di mera occasione dell’evento dannoso. In sostanza, la condotta del danneggiato può in astratto assumere invero rilievo causale meramente concorrente o» addirittura esclusivo, osservano i giudici di Cassazione.
Ciò detto, però, è evidente, sempre secondo i magistrati di Cassazione, l’errore compiuto in Appello, laddove ci si è limitati ad estrapolare la scelta di fumare dalle serie causali che hanno prodotto l’evento dannoso, senza enunciare le ragioni per cui ritenere che l’attività di produzione e di commercializzazione del tabacco non abbia nella specie avuto efficienza causale alcuna nella determinazione dell’evento, relegando implicitamente tale azione a mero antefatto occasionale, inidoneo ad innescare la sequenza causale sfociata nell’evento lesivo. Invece, tenuto conto che alla ‘British American Tobacco Italia S.p.A.’ è stato imputato di non avere informato adeguatamente la donna della nocività del fumo, al fine di verificare la colpa della vittima nella causazione del danno e accertarne l’efficienza causale esclusiva ovvero concorrente, si sarebbe dovuto invero dapprima valutare se l’evento dannoso si sarebbe verosimilmente verificato ove uno dei due soggetti coinvolti avesse mantenuto la condotta alternativa corretta, per poi ripetere l’operazione a parti invertite, avendo l’obbligo di apprezzare ogni fattore causale rilevante al fine di stabilire la relativa incidenza (con)causale nella determinazione dell’evento lesivo.
Poi, a fronte della considerazione come pericolosa dell’attività di produzione e di commercializzazione del tabacco, i magistrati di Cassazione chiariscono che, ove l’attività considerata sia quella della produzione finalizzata al commercio e quindi all’uso da parte del consumatore, è ovvio che, se quell’attività sostanzialmente diffonde nel pubblico un rilevante pericolo, tale attività debba per sua natura definirsi pericolosa, tanto più se il pericolo invocato sia quello conseguente all’uso tipico e normale di quel prodotto e non ad un uso anomalo. E laddove l’attività abbia ad oggetto la realizzazione di un prodotto destinato alla commercializzazione e poi al consumo, la caratteristica di pericolosità può riguardare anche tale prodotto, indipendentemente dal punto che esso sia altamente idoneo a produrre i danni non nella fase della produzione o della commercializzazione, ma nella fase del consumo, come le sigarette, per l’appunto.
In sostanza, proprio in ragione della qualificazione come pericolosa dell’attività di produzione e commercio del tabacco, i giudici d’Appello non avrebbero dovuto limitarsi a ritenere la scelta del consumatore – cioè la donna deceduta a causa di un carcinoma polmonare – una causa prossima di rilievo, in quanto la condotta del danneggiato non solo va valutata diversamente a seconda della pericolosità dell’attività, ma anche perché la disciplina delle attività pericolose richiede una prova liberatoria specifica e particolarmente rigorosa, che non coincide propriamente con la prova del caso fortuito, comprendente il fatto colposo della vittima, essendo innegabile che nella pratica la differenza con il limite del fortuito si attenui sensibilmente.
Anche l’argomentazione posta in Appello a fondamento della ravvisata consapevolezza della vittima in merito ai danni cagionati dal fumo risulta invero non essere stata assunta all’esito di un accertamento specifico della effettiva consapevolezza da parte della vittima della cancerogenicità del fumo, accertamento viceversa indispensabile per ritenere in colpa la donna, atteso che da ella si sarebbe potuto esigere una diversa condotta (non fumare, fumare meno, non aspirare il fumo, adottare altre cautele), solo ove, informata del rischio specifico cui risultava esposta in ragione del consumo di sigarette, si fosse ciononostante ad esso consapevolmente e volontariamente
indotta. Non a caso, secondo la tesi dei familiari della donna, quest’ultima non aveva consapevolezza, nel 1965, quando aveva iniziato a fumare, della correlazione tra il fumo di sigarette e il cancro, mentre i giudici d’Appello si sono limitati ad affermare che la nocività del fumo era un fatto socialmente notorio negli anni Settanta.
Tuttavia, la questione controversa non è se vi fosse una generica consapevolezza sociale e personale della donna in ordine alla nocività del fumo bensì se ella fosse specificamente stata informata e consapevole che il fumo è cancerogeno, precisano i magistrati di Cassazione. E in questa ottica bisogna considerare che solo nel 1975 è stato introdotto in Italia il divieto di fumare in determinati locali e sui mezzi di trasporto pubblico, e tale divieto è stato esteso solo molto più tardi – nel 1995 – a determinati locali della pubblica amministrazione o dei gestori di servizi pubblici. Il divieto di pubblicizzare direttamente o indirettamente qualsiasi prodotto da fumo risale al 1983 mentre il divieto di pubblicità televisiva – anche indiretta – delle sigarette è stato posto nel 1991. E la prima concreta misura di dissuasione diretta, frutto della certezza raggiunta dalla comunità scientifica che il fumo sia alla base di numerose forme di cancro e di un numero indefinito di altre gravi patologie, è stata introdotta nel 1990, ed è stata successivamente estesa e resa più rigorosa nel 2003 e poi sono arrivate misure di intervento più incisive e concrete nella lotta al tabagismo.
Per i magistrati di Cassazione, essendo la nocività del fumo un fatto socialmente noto a partire dagli anni Settanta, tutt’altro che socialmente nota era invero all’epoca cui risalgono i fatti la correlazione specifica tra fumo e cancro (e altre gravi patologie). Tradotto in soldoni, va certamente escluso che nel 1965, allorquando la donna ha iniziato a fumare, fosse socialmente nota la correlazione tra fumo e cancro, e che la donna stessa fosse informata e conscia del rischio specifico di contrare il cancro e si sia ciononostante indotta a fumare fino a venti sigarette al giorno, in virtù di consapevole scelta edonistica. Difatti, l’asimmetria informativa in Italia è stata colmata normativamente solo con una legge del 1990, persistendo peraltro in capo all’esercente un’attività pericolosa l’obbligo, al fine di andare esente da responsabilità, di dimostrare di aver adottato ogni misura atta ad evitare il danno, come, ad esempio, l’adozione di filtri volti a contenere lo sprigionamento delle sostanze cancerogene provocate dalla combustione la produzione di sigarette con una più contenuta percentuale di catrame e di altre sostanze cancerogene, l’informazione sui rischi del fumo.
Per i magistrati di Cassazione non ci sono dubbi: solamente a fronte della conoscenza o della effettiva conoscibilità dei rischi specifici connaturati alla pratica del fumo, può configurarsi un concorso di colpa del consumatore fumatore. E, tirando le somme, l’esercente l’attività pericolosa è tenuto ad adottare, in relazione al contesto di riferimento, misure precauzionali anche al di là di quelle strettamente imposte dalla legge, anche e soprattutto sul piano dell’informazione, al fine di evitare il rischio d’impresa derivante dall’immissione sul mercato di un prodotto ontologicamente dannoso senza specifiche informazioni in ordine al tipo di danni alla salute (conducenti, come nella specie, addirittura alla morte) cui il consumatore risulta esposto, e il relativo consumo inconsapevole da parte del fumatore. Consumo inconsapevole dei rischi specifici cui rimane esposto in ragione dell’immissione in commercio delle sigarette, invero deponente per l’esclusione che la condotta del consumatore possa considerarsi improntata ad effettiva libertà di determinazione al riguardo e come tale possa pertanto assurgere a causa prossima di rilievo nella determinazione dell’evento dannoso, chiosano i magistrati di Cassazione.